“Le CARTOSTRUTTURE di Adamo Modesto”

         di Mirella Bentivoglio

      

La promozione estetica di un materiale povero, in piena fedeltà alle sue caratteristiche cromatiche e strutturali, iniziò, prima di tutto, con i libri futuristi di latta, negli anni Trenta; poi, con i sacchi di Burri. Con le “litolatte” marinettiane il materiale che dà forma al contenitore usa e getta di cibi, si dichiarava idoneo a costruire un contenitore di concetti, il libro; e con Burri un ruvido tessile, strappato alla funzione di tutelare merce povera come carbone e patate, rimpiazzava improvvisamente la tela del pittore soverchiandone il ruolo di supporto e ponendosi come indiscusso protagonista. Due rivoluzioni semiologiche, due avvii alla scoperta delle potenzialità espressive di qualsiasi materiale, con le sue proprietà anche simboliche e la sua disponibilità a offrirsi come nuovo mezzo di comunicazione poetica.

 Queste le premesse storiche; molti qua e là i tentativi. In questi ultimi anni, un artista romano che risponde pienamente al significativo nome di Modesto ( davvero i cognomi influenzano il comportamento di chi li porta, o si tratta di magiche coincidenze?) ex  ceramista, ex allievo di Leoncillo, ha rivolto il suo interesse creativo al cartone da imballo. Sulle orme di quei grandi predecessori; perché contenere, incassare, imballare, sono atti paralleli.

  Come la latta e i sacchi, anche i cartoni sono materiali di secondo grado, segnati dallo stadio industriale della storia. Come la latta e i sacchi, i cartoni hanno una funzione di contenitore, protettiva; ma, a differenza dei sacchi, sono semirigidi, adatti allo scultore come i sacchi al pittore.

  Modesto con i cartoni compone rilievi, assemblaggi, scatole-sculture, libri-oggetto, paesaggi urbani o composizioni astratte; irradianti, a nido d’ape, o labirintiche, a segmenti. Del cartone conserva in genere il colore, così simile a quello dell’abbandonata ceramica, ma a volte lo ricopre, con vernice bianca o addirittura aurea, non tanto in omaggio al maxi orafo Pomodoro quanto forse per significare il miracolo di trasformazione di ogni opus alchemica.

Col cartone risolve anche problemi pratici. La fragilità, il peso, il costo dei trasporti.

E ne lascia bene in vista il gioco interno, quello delle pieghettature che imbottiscono le superfici.

Perché il cartone da imballo è “armato”, proprio come il cemento delle costruzioni, ma tautologicamente armato di cartone. E queste sfrangiature di ombre, che orlano i contorni delle sagome, evidenziando l’apertura dei tunnel dell’interna ondulazione, provano la veridicità di ciò che in tempi lontani mi disse Modesto: che Leoncillo aveva adottato la tecnica del sezionamento di opere di materiale argilloso non ancora cotte, perché influenzato dagli esperimenti condotti allora  in questo senso dal suo allievo Modesto. Risale infatti a quegli anni  l’assunzione di questo procedimento da parte del grande ceramista. La rivelazione del gioco di pieni e vuoti, la confessione di ciò che in genere rimane nascosto dall’epidermide, la visibilità delle interiora, il tutto grazie al taglio netto. Procurato ora da Modesto sui cartoni con lame, come allora sull’argilla con filo di ferro.

Ma prima di giungere ai cartoni, questo artista aveva sperimentato su molte materie, anche sul tradizionale marmo (si vedano i suoi pannelli per la Direzione dell’INPS, all’EUR) prima che il processo di, diremo, democratizzazione delle materie, di riabilitazione antiaccademica dei media quotidiani, lo allontanasse dalla pietra come dalla terra. In un certo senso, ciò che egli oggi usa ha sommato due tra i suoi primi alterni interessi: la carta di giornale e la terra. Perché ricordo, degli anni Sessanta, i sui collages di pagine stampate, la ragione appunto per cui lo avvicinai, in cerca come sempre ero di sperimentatori della scrittura, anche della scrittura trovata.

 Non può quindi sorprendere che poi, dagli anni Ottanta, Modesto sia stato un pioniere della digital art. Creò cortocircuiti tra forme di architetture urbane e forme alfabetiche, e ritrovò nelle corrosioni dei muri che andava golosamente fotografando e poi digitando sul suo schermo, non solo i valori materici  della perduta ceramica, ma curiose inconsce emersioni di anonime paleoscritture.

Tuttavia, la digital art metteva a tacere la sua ricca manualità plasticatrice. Ecco allora che l’uso del cartone ha riscattato le possibilità del tocco formatore, e insomma del gesto. Un ritorno diverso, personale, conclusivo, ai valori su cui si era addestrato nella sua giovinezza.